Scacco

Scacco

Sessanta giorni dopo le elezioni, lo stallo politico intrappola partiti e cittadini. Come andrà a finire?

Considerazioni un po’ lunghe, spero chiare. Sicuramente, non un analisi della sconfitta. Esattamente due mesi fa si votava per le elezioni politiche. I risultati erano nell’aria già da un po’, ma vederli scritti sui giornali, sentirli nella bocca dei giornalisti, riecheggiare nelle riflessioni dei politici è tutta un’altra questione. Su questo punto, la faccio breve: il Pd ha perso molto male, il centrodestra (Lega-Forza Italia soprattutto) riesce nel suo intento, il M5S sbanca. Tutto sommato, l’unica differenza dal 2013 è che la coalizione vincente era opposta a quella di ora, ma per il resto ci siamo. Del resto, da un sistema multipartitico frammentato, che adotta una legge elettorale proporzionale non c’è molto altro da aspettarsi se non un non-vincitore. Ma questo, lo sapevamo tutti.

A volte però, non sempre chi vince è colui il quale arriva prima degli altri. In questo caso, infatti, la possibilità che il progetto politico nato sottopelle da parte delle forze partitiche, chiamiamole “centriste”, sembra stia funzionando. La legge elettorale ha portato proprio a ciò che ci si auspicava: escludere la possibilità per il partito dell’anti establishment per eccellenza, il M5S, di governare il paese; mettere fuori gioco la coalizione che avrebbe adottato la logica del “catch all-party“, ovvero: tutti dentro, poi si vedrà; limitare i danni del proponente della legge elettorale, il Pd. Se dell’ultimo punto si può discutere, gli altri sono una realtà. E’ una realtà che Di Maio premier non lo vuole nessuno, è una realtà che il M5S dal 5 marzo sta perdendo consensi in quanto costretto alla ricerca di una sponda da una o dall’altra parte, è una realtà che la coalizione di centro destra si è mostrata per quello che era, citando Fantozzi, “una cagata pazzesca”. I punti di riflessione sono tre, a mio avviso, con un tema centrale in ognuno di questi ovvero la nascita effettiva di una polarizzazione nel sistema partitico europeo:

a) M5S-Lega, questo matrimonio non s’ha da fare: il vero vincitore di queste elezioni si chiama Matteo Salvini. Il suo partito è il primo della coalizione; ed è, inoltre, il partito politico che ha aumentato di più, sia nei collegi uninominali che in quelli proporzionali, i consensi in quasi tutto il paese. Va detto, poi, che il programma con cui la Lega si è proposta all’elettorato è molto simile a quello pentastellato, non per nulla infatti le voci di un governo M5S/Lega si sono sparse poco dopo il primo exit poll della mezzanotte e mezza. C’è un però in tutta questa storia. Ed è un però che conta tanto. Tralasciando il fatto che la Lega avrebbe dovuto sciogliere la coalizione col centrodestra (che di fatto non è mai esistita), il governo M5S/Lega non si può formare per il semplice fatto che le promesse elettorali di entrambi non possono essere realizzate. Non solo in termini di stabilità economica e finanziaria del paese, ma per il tipo di esposizione politica che sarebbe costretto a fare il Movimento. Non avendo una base elettorale omogenea, il M5S ha costruito la propria sui punti più comuni che un’elettorato “di protesta” poteva condividere. Una buona parte dei propri consensi provengono proprio da quell’elettorato “centrista” ( osservando i flussi elettorali è abbastanza chiaro). Il riposizionamento verso l’estremità dell’arena politica, in questo caso, l’estremità a destra, risulta complicato. Se si oltrepassa il confine politico nazionale e si ragiona in ottica europea, bisogna tenere in considerazione il fatto che già c’era stato un tentativo di smarcarsi dalle posizioni euroscettiche, con il dialogo prematuro avuto coi liberali (l’ALDE) per inserirsi intanto nel gruppo parlamentare. Formare un governo con un partito di destra, non è proprio la cosa più saggia da fare. Anche perchè una ghiotta possibilità di finire nello schieramento proposto da Macron sarebbe vantaggiosa sia per il Presidente francese che per i pentastellati.

b) Berlusconi – Salvini, così vicini, così lontani: tutte le volte che il centrodestra si presenta unito alle elezioni, ha un consenso molto vicino al 30%. Il problema  si pone dopo. Di fatto, all’interno della coalizione non vi è un Leader, sia in senso partitico che in senso di personalità politica. Anzi, vi è una competizione interna dove chi arriva primo può arrogantemente prendersi il ruolo di trascinatore del centrodestra. Sono più le volte che questa idea non ha funzionato che quelle in cui è andata bene, ma essendo l’unica via da seguire, anche quest’anno si è proceduto così. Questa volta, però, vi era un vincolo non indifferente, di nome Antonio Tajani. Sebbene alle europee del 2014 Forza Italia avesse raggiunto un risultato mediocre (17%), uno dei pochi eurodeputati eletti dal partito di Berlusconi (13in tutto) è diventato Presidente del Parlamento europeo per lo schieramento dei popolari. Popolari che, in Europa, sono ben distanti dalle posizioni di partiti come la Lega, o addirittura Fratelli d’Italia. Le possibilità di manovra di Berluscioni nella composizione del programma elettorale erano ristrette, anche perchè il PPE si sta preparando a raggiungere una maggioranza quasi-assoluta nelle elezioni europee del 2019 (al momento, sia il Presidente della Commissione, che quello del Parlamento europeo sono del PPE). Già solo con questa considerazione si sarebbe dovuto immaginare che, tra Salvini e Berlusconi non poteva che esserci divisione piuttosto che unione. Sommando a tutto questo il fatto che Berlusconi rappresenta da cima a fondo (ben oltre la sua statura) il tipo di “politica” che il M5S rifiuta, era prevedibile che non vi sarebbero stati punti d’incontro.

c) E’ tutta colpa di Macron: se Benoit Hamon avesse vinto le primarie del Ps due anni fa, ora sarebbe tutto diverso. Diciamocelo, Macron è lì perchè il sistema semipresidenziale, unito al doppio turno uninominale, salvaguarda le istituzioni dai partiti dell’ “anti-establishment”. Mai nella storia della V Repubblica era successo che il Presidente della Repubblica era un candidato diverso da quelli proposti dal Ps o dai repubblicani. Al momento della scelta tra una forza estrema del sistema politico, Le Pen, e un ex Ministro, che si presenta con un partito “nuovo”, vi era ben poco di cui preoccuparsi. Il trend di risultati disastrosi per i partiti delle forze progressiste di sinistra è continuato in tutta Europa, passando per l’Austria, attraversando l’Olanda, incontrando la Francia e poi in Germania e in Italia. Macron era al posto giusto al momento giusto con un’ idea brillante: usare l’argomento che tutti gli altri partiti  contestavano per emergere. Sentire da un francese che il processo d’integrazione deve, di fatto, tendere verso delle istituzioni di tipo federale non è così scontato. Giocare sullo scontro di opinioni, portando all’estremo la scelta degli elettori ha pagato: con Macron non si diceva solo sì all’Europa, ma anche al suo progetto politico, ad un futuro (questo, per esempio, è quello che è mancato nella campagna elettorale per il “remain” nel referendum sulla Brexit). L’effetto che non tutti hanno considerato è stato però controproducente per un certo senso. Ovvero, la riuscita della candidatura di Macron, ha messo ancora più in difficoltà e in minoranza il consenso per i partiti della sinistra europea e con essi, la loro campagna elettorale a difesa dell’Europa (contro quella di accusa dei partiti di destra). Tutta questa difficoltà, l’ha incontrata proprio il Partito Democratico con la spaccatura al suo interno tra chi si augurava di seguire a ruota la rotta macroniana e chi più orgogliosamente rivendicava l’appartenenza al PSE (voluta, tra l’altro, dallo stesso Renzi che in tutta la campagna elettorale, quindi a due anni di stanza dalle europee, ha elogiato Macron). Ma, di fatto, il Pd ha perso così tanto per due motivi: per una campagna elettorale imbarazzante, e semplicemente per essere stato il “partito di governo” per 5 anni. La chiusura ad un’appoggio al M5S, e su questo mi sorprendo ci siano posizioni discordanti, è l’unica via da seguire per (r)esistere.

 

Volutamente non accennando ai risultati delle regionali in Molise e Friuli Venezia Giulia, concludo con una previsione: cosa accadrà? Non avendo trovato un’appoggio al governo da nessuna parte, spetta al Presidente della Repubblica procedere: o elezioni anticipate, su invito dei partiti politici; o governo tecnico, su auspicio dei partiti politici. Tenendo conto che tra un’anno ci sono le elezioni europee, il senso di cercare un governo-temporaneo fino alle prossime elezioni “nazionali” per rivalutare il peso delle forze politiche, sembra essere quella più sensata (soprattutto per non stressare troppo l’operazione di voto, che già vede la partecipazione dei cittadini calare di volta in volta). Un’ultima considerazione: le elezioni europee, di norma, tendono a favorire di più i partiti che sono all’opposizione, permettendo all’elettore di seguire una logica più “personale” su un voto non prettamente politico. Politicizzare le elezioni europee, potrebbe essere l’unica via d’uscita per i partiti italiani a questo stallo sia partitico che elettorale.

Sessanta giorni dopo le elezioni, lo stallo politico intrappola partiti e cittadini. Come andrà a finire?

Category: Politica

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